EMIGRAZIONE, EPOCA COVID-19

Cosa hanno fatto le Associazioni di Italiani all'estero?

CEDISE link logo.jpg

La parola al Presidente di CEDISE - Aldo Aledda:

(Aldo Aledda, da numerosi anni grande amico della SCA, e autore di numerosi lavori sui meccanismi istituzionali di alcuni grandi comparti della società moderna. Oltre ai flussi migratori ha trattato come componente di autorevoli consessi nazionali e istituzionali sull'Emigrazione Italiana, in particolare , ha scritto diversi articoli e saggi tra cui i libri "I Sardi Nel Mondo" (1991) e "Gli Italiani Nel Mondo & Le Istituzioni Publiche" (2019). Soprattutto è stato testimone privilegiato delle politiche di settore come coordinatore, per diversi anni, delle Regioni Italiane e componente della Cabina di regia della Conferenza Stato-Regioni- CGIE)

Aldo Aledda scrive - "Per comprendere come in questo breve lasso di tempo l’emergenza pandemica si sia riflessa sulla galassia migratoria bisogna osservare in primo luogo che cosa è accaduto nel paese e a chi risiedeva all’estero come emigrato di antica data o recente expat.

Aldo Aledda

Aldo Aledda

Il piccolo virus che ha fatto irruzione nell’orbe terracqueo, sia pure con numeri insignificanti rispetto alla vastità della popolazione mondiale e con una mortalità inferiore ad altre patologie non meno allarmanti nel nostro tempo, è riuscito a mettere in ginocchio come non mai l’economia globale, colpendo soprattutto i paesi più deboli o in stato di lento declino come il nostro.

 Da quello che abbiamo potuto osservare o apprendere, gli italiani nel mondo direttamente o indirettamente sono stati toccati da questo fenomeno, in primo luogo dal rafforzarsi del centralismo statale – e, in alcuni casi, anche di quello regionale rispetto alle autonomie locali – che ha rafforzato i tratti autoritari delle istituzioni attraverso atti amministrativi che hanno inciso inevitabilmente su funzionamento della burocrazia, il tutto all’insegna del velleitarismo e dell’inefficienza e della massima confusione normativa. Ne emerso un sistema che, per quanto riguarda gli italiani che facevano ritorno alle terre di origine anche in ordine alle migrazioni interne, è apparso appesantito da adempimenti incomprensibili, controllo superflui, autocertificazioni e adempimenti inutili, improbabili quarantene, il tutto con una rete di trasporti assolutamente inadeguata.

Secondariamente ha gito da deterrente per chi rientrava l’aspetto della spettacolarizzazione dei momenti repressivi, accompagnato dall’incessante e mirata azione propagandistica, cui non erano estranei interessi politico-elettorali contingenti. Il martellamento mediatico, avvenuto soprattutto attraverso il piccolo schermo all’interno dei nuclei familiari costretti a raccogliersi intorno a esso, non ha mancato di creare ansie e psicosi nella popolazione con riflessi anche nei rapporti interpersonali e coinvolgendo in modo diretto soprattutto chi proveniva da fuori indipendentemente che fosse cittadino italiano, emigrato o immigrato, turista o semplice possessore di una seconda casa nella regione.

In terzo luogo, per gli aspetti che ci riguardano vi è stato il ruolo che si sono assunte le istituzioni, dividendo il paese tra untori e unti, nell’alimentare la paura che il virus avrebbe affetto quasi esclusivamente le persone anziane, senza particolari effetti negativi sui giovani. Questa convinzione ha innescato una sorda lotta intergenerazionale che si è manifestata soprattutto nei comportamenti quotidiani ed è esplosa con maggiore forza con le riaperture quando i più giovani in qualche modo si ritenevano sicuri rispetto ai contagi e ai suoi effetti letali mostrandosi platealmente indifferenti a ciò che sarebbe successo alle frange più esposte della popolazione anziana. Chi si occupa dei flussi migratori sa quanto la solidarietà familiare abbia rivestito un carattere ambivalente, pur senza ancora parlare del familismo amorale di Banfield. Se da un lato i legami affettivi hanno spesso condizionato partenze e rientri, dall’altro le sue logiche hanno prodotto e continuano a produrre lo smottamento della popolazione giovanile verso altre mete in questi ultimi decenni, soprattutto dal Mezzogiorno. Ciò è avvenuto in ragione del fatto che la famiglia tradizionale al Sud ha quasi sempre fatto da sponda a visioni della società, sponsorizzate dalle classi politiche locali, orientate all’assistenzialismo, alla sicurezza e all’ottenimento e relativa salvaguardia di posti fissi e sicuri, possibilmente pubblici, mentre scarso valore si è quasi sempre sforzata di attribuire alle aspirazioni meritocratiche e realizzative dei giovani. Chi abbandonava l’Italia e, soprattutto il Meridione, anche solo per il Nord del paese, è evidente che non si riconosceva in quelle posizioni e, nei suoi confronti, si rivolgeva il sordo risentimento di quella parte di paese o di regione che era rimasta e che ha avuto occasione di esplodere più che mai in un momento come questo.

Ma il problema non può essere trattato a fondo se non si esamina il terzo dato, ossia il carattere classista. Infatti, in questa circostanza il paese è sembrati dividersi tra chi trovandosi  in migliori condizioni economiche era in grado di reggere il confinamento (i testimonial principali del rimanere a casa, al pari dei grandi medici e degli alti burocrati e i politici che in questa fase erano preposti a guidare il paese, erano spesso esponenti del mondo dell’arte, dello spettacolo e dello sport che, al pari i primi, spesso risiedono in ville, attici, appartamenti di lusso contro la maggior parte della popolazione costretta a stare chiusa in casa che nel resto del paese vive in gran parte ammassata in abitazioni grandi quanto le loro sala biliardo o di proiezione); con questi stava anche la larga fascia di dipendenti pubblici (oltre tre milioni) che poteva agevolmente reggere la crisi posto che gli era stato appena richiesto di lavorare da casa, con stipendi che comunque  correvano interi. Di fronte a una cerchia esigua di privilegiati, dunque, stava e sta un mondo di licenziati, cassintegrati, piccoli imprenditori e artigiani, oltre che lavoratori in nero, che non potevano svolgere la loro attività perché colpiti dalle chiusure cui il governo assicurava risarcimenti, indennizzi, interventi a pioggia con risorse che sperava solo di avere e un apparato burocratico, mai riformato, che non era in grado con tutta la buona volontà di far fronte agli impegni. Senza alcuna copertura pubblica si è trovata egualmente buona parte dell’emigrazione interna che dal Sud si era spostata al nord per lavorare o studiare e che, allo scoppio della pandemia, ha cercato di raggiungere le regioni di origine andando a gravare spesso su famiglie che vivevano di sole pensioni e sussidi e in spazi abitativi ristretti. Particolari difficoltà hanno poi provato quegli emigrati rientrati dall’estero, abituati a non stare con le mani in mano, a reinventarsi un’attività per continuare ad andare avanti; ma più in generale la gran parte degli espatriati non rientrava neanche nell’area dei possibili beneficiati dai lanci di soldi dell’helipcoter money (non si dimentichi che la richiesta di estendere il reddito di cittadinanza agli italiani che risiedono fuori dei confini non ha mai avuto seguito).

Il quadro dei rientri non è stato omogeneo. A parte chi, grazie allo smart working, ha potuto continuare a lavorare per la loro azienda da remoto, per gli studenti e i giovani lavoratori senza più lavoro all’estero con genitori benestanti il destino è stato diverso. Molti hanno potuto far rientro in famiglia in condizioni di maggiore serenità, quasi realizzando una vacanza prolungata soprattutto se lo consentivano e lo consentono le condizioni familiari dopo la cessazione della chiusura (grandi spazi abitativi o seconde e terze case in cui eventualmente ospitare in assoluta autonomia i rientrati). La sfida rimane aperta per chi ha provato o prova a ipotizzare un rientro definitivo studiando nuove attività o startup, almeno per il periodo in cui ritiene che l’economia mondiale continuerà a essere in difficoltà.

Un quarto elemento che ha avuto un’influenza più diretta sulle nostre migrazioni, soprattutto interne – ma non è stato risparmiato anche chi proveniva dalle aree del mondo più colpite – è stato in qualche modo quello razziale. Esso, a parte gli immigrati tradizionali – nei cui confronti probabilmente si manifesterà più in là in coincidenza con l’aggravamento della condizione economica o quando il virus esploderà maggiormente nei paesi di partenza –, questa volta ha riguardato in prevalenza proprio i cittadini delle altre regioni italiane, come conseguenza di chiusure e creazioni di zone rosse. In pratica è successo che il Sud, consideratosi sempre come oggetto di ingiustificato disprezzo da parte della parte Nord del paese – cui peraltro attribuiva la responsabilità storica di sottrarre proprie risorse umane e finanziarie –, poteva finalmente proclamare di essere da meno.

Quindi, che i veneti, i lombardi, gli emiliani, i piemontesi, ecc. non scendessero nelle regioni libere dal virus contagiandone gli abitanti. Tra gli untori erano annoverati anche quei giovani e gli emigrati di un tempo nei riguardi dei quali le società di origine spesso coltivavano il rancore che si riserva a chi ha tradito la patria e la famiglia di origine cercando la soluzione ai loro problemi al Nord e privando così ipoteticamente il paese di intelligenze e risorse che avrebbero consentito alla Sicilia, alla Puglia, alla Campania, ecc.. di crescere. Poco importa che il divario economico tra il Nord e il Sud del paese è accresciuto proprio quando i giovani del Sud hanno smesso di emigrare al Nord Italia e nel mondo, ossia tra gli anni Settanta (quando sono cessati i grandi flussi migratori del Secondo Dopoguerra) e gli inizi del Duemila quando sono riprese le partenze dal Sud verso le tradizionali destinazioni. Via agli untori, proclama quindi l’attuale classe politica e dirigente del Mezzogiorno estremamente bisognosa di consenso anche a prezzo di affondare una delle poche attività rimaste, quella turistica, ossia la classe che riteneva di avere dato esempio del suo coraggio restando e non emigrando per far progredire le loro regioni, ma che in realtà aveva solo accresciuto il divario giacché i propri esponenti non avevano fatto altro che muoversi lungo il solco di una deprecabile tradizione meridionale diventando essi stessi baroni universitari, primari ospedalieri imputati dello sfascio del sistema sanitario, politici e  funzionari pubblici corrotti protagonisti delle cronache giudiziarie locali. Le immagini del presidente della Sicilia che fermava gli arrivi dei corregionali all’imbarco dei traghetti per Messina o quello della Sardegna che imponeva che si potesse imbarcare nell’isola solo chi aveva ottenuto il suo personale permesso, accanto a quelle di chi effettuava i controlli dei treni a Napoli e a Bari costituiscono l’emblema di questa sorta di razzismo becero e all’inverso unito al risentimento ancestrale nei confronti di chi era “fuggito”. In questo circuito infernale di risentimento e, in particolare, d’ingratitudine nei confronti dei settentrionali ­– molti dei quali si recavano presso le secondo case, grazie alle quali portavano ricchezza alle asfittiche economie meridionali – si sono trovati coinvolti anche gli expat e i giovani che rientravano o dal nord Italia o dall’estero, magari solo per vacanza o per aver perso il posto di lavoro o semplicemente per stare vicini ai genitori anziani molti dei quali pensavano che forse non avrebbero più visto per effetto di questa epidemia.

Abbiamo visto, dunque, la risposta delle istituzioni. Ma che cosa hanno fatto le associazioni?

Posto che si tratta di strutture sempre più in difficoltà, si sono limitate a seguire alcuni singoli casi oppure a denunciare la situazione generale. La federazione delle associazioni dei sardi, per esempio, che ha provato a mettere sul tappeto sia il problema dei sardi, e non, che avevano le seconde case in Sardegna sia quello delle difficoltà che creava la Regione con le sue richieste fuori luogo di patenti sanitarie e altri inutili adempimenti burocratici, è stata snobbata dall’Amministrazione se non addirittura ridicolizzata. Nell’organizzazione degli ex emigrati sardi, infatti, si è creata, una situazione parallela a quella degli “italici” giacché più della metà dei tesserati ai circoli degli emigrati dalla Sardegna non sono sardi, vale a dire si tratta di altri italiani o stranieri all’estero che hanno interessi concreti verso l’isola oppure s’identificano nei suoi valori. Tutto ciò non solo non è stato preso in considerazione, ma contro di questo la Regione ha smosso l’opinione pubblica locale, attraverso i mass media da essa in larga misura controllati, facendo leva sull’inconscia paura della diffusione del virus.

L’altro obiettivo contro cui è stata caricata buona parte dell’opinione pubblica italiana, e che ha creato non poco imbarazzo nei giovani che ci credono e che l’hanno scelta come spazio capace di ampliare le loro opportunità, è stata l’Unione Europea. Davanti a questa il governo italiano presentava all’incasso la cambiale di aver sconfitto il pericolo populista dell’euroscetticismo. Ciò avveniva rafforzando minacciosamente i discorsi sulla mancata solidarietà europea difronte al pericolo, che in concreto si traduceva in aiuti gratuiti, aumento del deficit e maggiore indebitamento. A fronte di queste richieste diversi paesi del nord Europa hanno reagito, com’è noto, etichettando queste richieste come il consueto pretesto del nostro paese di fare ogni volta finanza allegra per scroccare i soldi ai cosiddetti paesi frugali (oggi con la pandemia, ieri con i migranti, avantieri con il terrorismo, ecc. ecc.). I media italiani soprattutto in questi ultimi tempi, facendo da cassa di risonanza delle dichiarazioni dei politici, si sono esercitati a mettere alla gogna questi paesi accusandoli d’insensibilità sociale ed europea col risultato che, nei sondaggi interni, la popolazione bombardata da codesta propaganda si mostrava sempre più schierata con chi si mostrava sinistro e minaccioso contro l’Europa, ma soprattutto verso i paesi “ingrati” poco riconoscenti di ipotetici meriti dell’Italia nei loro confronti. Paesi all’occorrenza da disprezzare anche perché rei di non aver seguito la nostra linea di chiusura totale permettendo egoisticamente alle loro attività economiche di procedere con minori rischi. Orbene si tratta di realtà geografiche in cui oltretutto vive, pensiamo all’Olanda e alla Germania, un gran numero di connazionali. Tantissimi dei giovani, soprattutto chi si trovava colà per ragioni di studio, ha incontrato non poche difficoltà a rientrare in Italia anche per effetto di queste polemiche mentre altri, preoccupati delle conseguenze hanno preferito continuare a restare all’estero, anche se a loro favore non si può negare che le strutture consolari non si siano impegnate, ma tanti voli per l’Italia sono stati cancellati oppure i costi dei biglietti divenuti proibitivi.

Ma, poi, che fare?

Molti pensano di rientrare nella loro regione. Qualcuno ha perso il posto di lavoro nel Nord Italia o all’estero, altri non vedono un futuro in Gran Bretagna. Le prospettive pertanto rimangono incerte.

Le idee di ripresa che circolano in Italia al momento sono in prevalenza assistenziali. Anche se economicamente si vede di buon occhio un elicottero che dall’alto sparge soldi (un numero dell’Economist di qualche settimana fa lo dipingeva come una cicala che riversava soldi dall’alto) perché questi verrebbero utilizzati dai beneficiari a spenderli a sostegno dell’economia locale, al momento non sembra che vi sia grande disponibilità; quelli  europei non arriveranno prima dei prossimi anni e, da quanto si vede, a condizione che siano fatte certe riforme che il paese non riesce a realizzare da decenni. La strada che rimane è ancora quella dell’indebitamento pubblico. Ma come si può pensare che dei giovani possano fondare il proprio futuro su un paese il cui debito pubblico graverà sulla loro generazione e quelle successive come un macigno? Da questione rimane aperta.

Quindi, per quanto riguarda gli esodi, se si avverano le speranze e l’ottimismo di chi ritiene che al declino seguirà la risalita, dal 2021 il contenimento delle uscite potrà essere una realtà e altrettanto i rientri di recenti expat e di figli di vecchi emigranti; ma se questo non dovesse accadere, oltre a quel po’ di ripopolamento delle nascite locali, il futuro sarà sicuramente caratterizzato da esodi superiori a quelli attuali"

Il quanto sopra e stato reso possibile grazie al stretto rapporto tra CEDISE www.cedise.net & il Cirolo Sardo di Melbounre (SCA), perciò ringraziamo Aldo per il suo importante contributo alla conversazione COVID-19, e in particolare per il suo supporto verdso la SCA nel corso di molti anni. - Il Direttivo della SCA Mebourne / Australia